Roberta Covelli, che per effequ ha pubblicato un’agile introduzione al tema della nonviolenza (Potere forte. Attualità della nonviolenza) ha scritto oggi un post su Facebook riguardo al recente arresto di sei carabinieri in servizio a Piacenza, accusati di vari e “impressionanti” reati:

Il post si chiude così:
Se davvero ancora si vuol parlare di mele marce, cerchiamo una volta per tutte i frutti cattivi, gettiamoli via e curiamo l’albero, che non sembra esser troppo sano
Si chiude cioè mancando completamente il bersaglio.
Il bersaglio, in questo caso, è proprio il frame delle “mele marce”, una metafora talmente consumata che non n’è rimasto nemmeno il torsolo. Che siano le stesse forze dell’ordine a riproporla dopo l’ennesimo abuso ormai non stupisce più: si tratta di una semplificazione talmente evidente che per questo risulta essere efficace presso un pubblico poco avvezzo all’analisi e assetato di spiegazioni usa-e-getta. Del resto, come sa ogni buon comunicatore, il messaggio che funziona è il messaggio semplice.
Ma la realtà è sempre un po’ più complessa dei comunicati stampa e dei telegiornali. Riflettiamo: se per definizione (e per legge) le cosiddette forze dell’ordine esercitano il monopolio della coercizione fisica legittima (come da vecchia e celeberrima citazione weberiana), ne conseguono logicamente due cose: che nel momento in cui l’uso della forza non è più legittimo, ci troviamo di fronte ad un ovvio abuso; e che l’esercizio di un certo grado di violenza è connaturato alla divisa, ossia lo costituisce e lo definisce. In soldoni: violenza e divisa non possono essere separati.
Ora, questo è un fatto, non un giudizio di valore. La violenza – credo io – è altresì costitutiva della politica, nonché della natura stessa, come ci ricorda un giovanissimo Werner Herzog:
Di conseguenza “se davvero ancora si vuol parlare di mele marce” allora bisognerà ammettere che marcio è anche l’albero, e poi il frutteto, e persino il terreno. E l’albero marcio non si cura, si abbatte.
Come è stato fatto notare nei commenti al post, siamo arrivati al paradosso che “mele marce” vengono considerati quei membri delle forze dell’ordine che denunciano l’operato illegittimo dei colleghi, con gravi ripercussioni sulla propria vita lavorativa. Io so di per certo che tra i militari in divisa esistono uomini e donne che compiono il loro dovere con senso della legalità, aderenza alle regole, spirito di servizio e anche un senso della misura e un’umanità che non vengono necessariamente insegnati nei periodi di addestramento. So che sono tanti, per fortuna. Ma in un sistema che non funziona – come dice giustamente Ilaria Cucchi, che ne sa qualcosa – costoro, oggi, sono l’eccezione. O, piuttosto, essi sono il virus di umanità che corre nel corpo marcio dell’apparato militare.
Infine, una domanda che mi perseguita da più di un quarto di secolo: perchè mai un uomo decide di indossare una divisa?
E a seguire, come se fossero corollari: perché mai un uomo decide di unirsi a un corpo il cui motto è “Usi ad obbedir tacendo e tacendo morir“? Perché sceglie di indossare un’arma, ossia uno strumento di morte? Perché sceglie di essere identico nell’aspetto, nei modi, nel linguaggio e spesso nei pensieri a migliaia d’altri? Perché decide di sottomettersi a una rigida e spesso ottusa gerarchia?
Al netto delle molte e talvolta belle storie personali di uomini e donnne in divisa, le risposte che mi sono sentito dare negli anni hanno tutte miseramente fallito alla prova della critica. Smontate pezzo per pezzo, nei loro fondamenti ideologici, nelle incongruità logiche, nella non aderenza ai fatti. Vi risparmio qui una fatica lunga più di due decenni. Mi rimane, come risposta, solo questo vecchio dialogo di Totò:
L’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: Uomini e caporali. […]
I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque.
Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!
