Quella che segue è la testimonianza di una volontaria della Fratellanza Militare di Firenze, che fa servizio sulle ambulanze. Si chiama Tessa. Ci racconta dell’importanza quasi rituale dei gesti di vestizione, della capacità di adattamento, dello sforzo e della fatica di chi, per mestiere o per passione civile, presta il proprio tempo e la propria attenzione alla cura degli altri
“Ragazzi, c’è da uscire”.
Un servizio su un’ambulanza di emergenza comincia sempre allo stesso modo, con una chiamata del 118. Poi vedi il codice: quindici. Infettivo, e infettivo di questi tempi significa una cosa sola: paziente Covid, sospetto o accertato. Uno sguardo per decidere a chi toccherà vestirsi; nel vano posteriore, infatti, salgono solo il professionista (quando c’è) e un membro dell’equipaggio. L’altro sale davanti e si chiude insieme all’autista nel vano guida. Dall’inizio del servizio al rientro in sede non scenderanno mai, per nessun motivo. Tutte le comunicazioni avverranno a distanza, spesso urlate dal finestrino.
Comincia così il rituale della vestizione, perché di questo si tratta, un rito con le sue regole e il suo cerimoniale.
Prima di tutto l’igiene delle mani, per poi infilarsi il primo paio di guanti.
Poi la tuta, di materiale plastico e non traspirante; tutto ciò che suderai rimarrà prigioniero lì dentro insieme a te. La tuta non sarà mai della taglia giusta, o troppo grande o troppo piccola, e così i tuoi movimenti saranno sempre intralciati o costretti. Se sei fortunato la tuta avrà i calzari incorporati, se lo sei un po’ meno ne sarà priva e dovrai indossare dei sovrascarpe bloccandoli alla tuta con del nastro telato; se sei proprio sfortunato, non avrai neanche quelli e ti devi arrangiare: ti metterai ai piedi dei sacchetti di plastica, che fermerai con il nastro adesivo, fedele alleato consumato a rotoli interi.
Per ultimi restano la testa e il viso: è lì che si concentra la maggior parte del disagio di quest’armatura che contemporaneamente protegge e soffoca.
Metti la mascherina, stringi bene la forcella al naso, tiri gli elastici dietro la testa (gli stessi che tra dieci minuti cominceranno a segarti dietro le orecchie), indossi gli occhiali protettivi (che in un attimo si appanneranno riducendo il tuo campo visivo al piccolo quarto superiore dell’occhio sinistro), infine tiri su il cappuccio e la zip e sigilli la cerniera. Ricontrolli che neanche un centimetro sia scoperto e finalmente sei pronto. Manca solo un ultimo passaggio: i colleghi ti aiutano a indossare il secondo paio di guanti sopra la tuta. Poi si parte.

Per assurdo, il servizio in sé, ossia il trasporto dei pazienti, è la parte meno impegnativa: spesso sono incoscienti, a volte intubati o attaccati ai respiratori, e hanno bisogno solo di una cosa: che il trasporto verso l’ospedale sia il più veloce possibile.
Al rientro in sede il rituale prosegue, ripetendo la sequenza al contrario, con attenzione, toccando il meno possibile ciò che hai indossato fino a quel momento: allenti la zip e togli tuta e calzari, sfili il primo paio di guanti e gli occhiali protettivi, la mascherina senza mai toccarla ma sfilandola dagli elastici posteriori, infine il secondo paio di guanti. Un ultimo lavaggio delle mani, una spruzzata di disinfettante sulla divisa ed è finita, almeno per te.
Ma comincia un altro rito, perché oltre agli individui anche l’ambulanza deve essere sanificata. L’ingrato compito spetta all’autista che, dopo aver a sua volta indossato il kit di protezione, butterà il materiale potenzialmente contaminato nei sacchi dedicati e poi bonificherà l’interno dell’ambulanza: dieci minuti con l’ozonizzatore ad ambulanza chiusa e, dopo aver areato, un passaggio di candeggina su tutte le superfici e gli oggetti. Almeno altri trenta minuti di lavoro.
In tutto sono passate solo due ore dall’inizio del servizio, ma sembrano sei.
Una telefonata. “Ragazzi c’è da uscire”. Si riparte.