Qualche giorno fa scrivevo che “la lezione che possiamo imparare dall’attuale pandemia è quella di intraprendere una duplice missione: ridefinire, insieme, i valori a cui dedicare cura e attenzione come collettività; e considerare la tutela della nostra attenzione – soprattutto di quella dei più giovani – come un compito di sanità pubblica.“
Oggi incappo in questo pezzo di un gran bel libro:
Per comprendere come il nostro ambiente informativo staia cambiando, abbiamo bisogno di un meccanismo attraverso il quale poter offrire a dei ricercatori veramente indipendenti l’accesso a quei dati che ci permettono, come società, di capire come i vari cambiamenti nel nostro modo di comunicare – che siano dettati dall’innovazione tecnologica, da interventi legislativi o da decisioni aziendali – influiscano sui livelli di verità e falsità all’interno del nostro ecosistema mediatico o sui livelli di segmentazione e polarizzazione.
La privacy delle nostre comunicazioni come individui e cittadini è una preoccupazione importante, ma non più della privacy dei nostri dati sanitari. E tuttavia sviluppiamo dei sistemi per permettere a dei veri ricercatori l’accesso, con gli adeguati vincoli legali, limiti contrattuali e protezioni tecniche, ai dati sanitari di milioni di residenti per condurre analisi dettagliate sui pattern delle malattie, sui trattamenti e sui risultati degli stessi. Possiamo fidarci di Facebook come unica fonte di informazione sugli effetti della sua piattaforma sul nostro ecosistema mediatico non più di quanto ci fideremmo di un’industria farmaceutica come unica fonte sugli effetti dei suoi prodotti, o di una compagnia petrolifera come unica fonte di misurazione delle emissioni di particelle o dei livelli di CO2 nell’atmosfera. Abbiamo bisogno di un sistema pubblico che disciplini non solo le aziende ma anche i ricercatori che hanno accesso ai dati, affinché non diventino degli intermediari per le aziende come Cambridge Analytica.
(Network Propaganda: Manipulation, Disinformation, and Radicalization in American Politics, di Yochai Benkler, Robert Faris e Hal Roberts, Oxford University Press 2018, p. 375, liberamente consultabile qui. Traduzione e corsivi miei)

Immagino la reazione allergica di quella fetta di pubblico a stelle e strisce (ma anche nostrana) che al solo sentire la parola pubblico comincia a sbraitare di dittatura come una gallina senza testa. E di certo il tema della regolamentazione pubblica dell’ecosistema mediatico (in particolare di quello digitale) è un tema delicato, su cui spesso si sentono fesserie o su cui il legislatore procede con incertezza – quando procede.
Ma mai come ora l’approccio di sanità pubblica agli spazi informativi (digitali e non) che abitiamo è un approccio, a mio modo di vedere, salubre. Ossia auspicabile: quella finzione necessaria che va sotto il nome di patto sociale si basa sulla capacità dello Stato di prendersi cura di noi, e questo oggi, vuol dire anche prendersi cura dell’ecosistema mediatico secondo criteri di sanità pubblica.
La legge 833 del 1978, che istituisce il nostro Sistema Sanitario Nazionale, recepisce l’articolo 32 della Costituzione quando, nel suo primo articolo, definisce la salute non solo come diritto fondamentale dell’individuo ma anche come interesse della comunità. Non possiamo forse dire lo stesso dell’informazione? Non è “interesse della comunità” che l’ecosistema mediatico venga ripulito dai livelli di inquinamento che lo contraddistinguono? Continuando nell’analogia e portandola alle sue estreme rappresentazioni, se la legge prevede il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) per quei soggetti che costituiscono un pericolo per sé e per gli altri, non potremmo allora immaginare un Trattamento Informativo Obbligatorio (TIO) per chi crede e diffonde in buona fede bufale e falsità? Si tratta di una provocazione, è ovvio: ma come per il TSO esiste una normativa, dei vincoli chiari, delle procedure precise, è così difficile immaginarle anche per i malati di disinformazione?
D’altra parte, curare i sintomi non significa ignorare le cause. Se bisogna curare le vittime della disinformazione bisogna allo stesso tempo evitarne la diffusione, il contagio, proprio come se si trattasse di un virus. O, per dirla come piace ai più democratici tra i miei amici, la media literacy dei pubblici va di pari passo con la cura dell’ecosistema mediatico. Una cosa non esclude l’altra.