È tutto così nuovo, pur senza esserlo.
Introversi e misantropi di vario grado si trovano a proprio agio nell’isolamento forzato, per lo meno in misura maggiore di chi a casa, per un motivo o per un altro, cercava di starci poco. Ma al di là del gradimento di costoro, per la maggior parte degli Italiani sono cominciate a cambiare tante cose nel giro di una notte, quella tra il 7 e l’8 marzo 2020.
I mezzi di comunicazione stanno provando a raccontare questi cambiamenti, e allo stesso tempo a guidarli: si sprecano consigli su come allenarsi in casa, tutorial culinari, suggerimenti per passare il tempo con i bambini. Ma anche analisi più o meno dettagliate sulle nuove (ma che nuove non sono) modalità di lavoro agile oppure sull’insegnamento online.
Un primo dato è quasi scontato: passiamo molto, molto più tempo online di quanto già facessimo.
Facciamo di necessità, virtù – si capisce. La spesa si fa online (per chi può), il giornale lo leggiamo sul web, e anche quei pochi che ancora andavano al cinema si saranno probabilmente arresi a qualche servizio di streaming, più o meno legale. Le lezioni si registrano su Zoom (che senza dir nulla a nessuno girava i dati a Facebook, ma pare abbia smesso proprio un paio di giorni fa) e anche le ditte più all’antica hanno cominciato a sbirciare Microsoft Teams.
I social network e le app di messaggistica diventano il nuovo ossigeno di noi reclusi. Tanto che il povero Zuckerberg si preoccupa che i server di Whatsapp possano fondere. Intanto, negli uffici di Tik Tok gongolano, perché il numero di download è in aumento costante, così come gli introiti.

Quello di Tik Tok è un caso particolarmente utile per capire come cambia la nostra relazione con le tecnologie digitali al tempo del Coronavirus. Tik Tok è infatti un’app cinese, conosciuta in patria col nome di Douyin; la spesa complessiva degli utenti nel mese di gennaio 2020 è stata molto inferiore a quella del mese precedente, probabilmente per la concomitanza con il capodanno cinese. Per chi non lo sapesse, il capodanno cinese è caduto il nostro 25 gennaio (due giorni dopo il lockdown di Wuhan) e di norma in Cina si festeggia per un paio di settimane a cavallo della data, il che significa non solo addobbi e festoni e feste in strada, ma anche e soprattutto i viaggi in giro per il paese nel cosiddetto periodo di Chunyun, cominciato a inizio gennaio. Insomma, poco tempo per stare attaccati al cellulare a scrollare video o a realizzarne di propri. A febbraio, invece, la curva della spesa risale, quasi raddoppia.

Nel mese di febbraio 2020 la Cina ha rappresentato il 91% della spesa globale sostenuta dagli utenti, seguita da Stati Uniti e Gran Bretagna.
Cosa è successo? Le autorità di Pechino hanno sospeso i festeggiamenti del capodanno e l’epidemia di Covid-19 ha cominciato ad espandersi; è scattato il lockdown e la gente è rimasta chiusa in casa, e si è messa a produrre e consumare video su Tik Tok – qualcuno di pessimo gusto, qualcuno invece assolutamente geniale e utile, come il balletto di due ragazzi vietnamiti che insegnano a lavarsi le mani sulle note di una canzone commissionata proprio dal governo.
Quel che vale per Tik Tok vale per molte altre app e ambienti digitali, soprattutto quelli che ben si prestano – o rapidamente si adattano – alle nuove necessità degli utenti in quarantena: da Google Classroom a Slack, da Instacart al più nostrano Esselunga a casa.
L’equazione è semplice: più tempo passiamo davanti a uno schermo connesso, maggiori sono le possibilità che la nostra attenzione, e cioè le nostre capacità cognitive, vengano colonizzate.
Pensiamo ai giovanissimi, nel cui caso la scienza ci suggerisce di usare estrema cautela: proprio perché non sembra esserci un consenso generalizzato sugli effetti precisi del tempo passato davanti a uno schermo dai bambini in termini di sviluppo mentale, viene raccomandato di usare moderazione. Tuttavia le realtà attuale è ben diversa: preadolescenti già dotati di smartphone che seguono lezioni online (assumendo che tutto vada per il verso giusto, cosa non affatto scontata), e poi si “rinchiudono” dentro chat e videogame online; bambini messi a pascolare davanti a iPad che riproducono ininterrottamente cartoni e musichette che stordiscono anche i cervelli più impermeabili; e persino matricole universitarie (i nuovi post-adolescenti) che chiedono al docente se i libri assegnati per il corso sono disponibili in formato audiobook, perché non riescono a leggere un libro, si distraggono durante la lettura e non ne ricordano il contenuto (storia vera accaduta a questo umile cronista).
Così come ci preoccupiamo della loro salute fisica dovremmo preoccuparci anche della salute e del corretto sviluppo delle loro facoltà cognitive.
L’attuale pandemia getta luce su un’altra questione relativa al nostro modo, come società, di prestare attenzione a ciò che riteniamo importante: gli anziani non sembrerebbero esserlo.
Dalle lamentele sui “vecchini irresponsabili” che vanno al supermercato tutti i giorni e ne escono con una sportina di pane e companatico, e non certo con le provviste per una lunga quarantena alla shadenfreude degli under 50 convinti che il virus colpisca solo gli anziani, si moltiplicano i segni di quello che con un’infelice traduzione si chiama ageismo (dall’Inglese age, “età”), ossia una forma di discriminazione che si basa sull’età avanzata di una persona. E la sanità pubblica diventa – per inerzia, per ignavia, per incapacità, per scelta fatta passare per necessaria, ma non certo per ignoranza – la sede privilegiata della discriminazione.
«Si decide per età e per condizioni di salute come in tutte le situazioni di guerra. Non lo dico io, ma i manuali sui quali abbiamo studiato»
Così in Italia, così in Spagna, così in USA, dove qualche burlone ha soprannominato il coronavirus “the Boomer remover“. Non devo tradurre, vero? Se ammettiamo che una società si definisce per le cose a cui presta valore, e dunque attenzione, cosa possiamo dire di noi stessi se questa è la considerazione che abbiamo per i nostri anziani?
Forse la lezione che possiamo imparare dall’attuale pandemia è quella di intraprendere una duplice missione: ridefinire, insieme, i valori a cui dedicare cura e attenzione come collettività; e considerare la tutela della nostra attenzione – soprattutto di quella dei più giovani – come un compito di sanità pubblica.
Non dice cose troppo diverse Prince Ea, rapper-poeta-creatore, nel bel video da cui è tratta la foto di copertina di questo post. Guardatelo, vi tira su!