"Ma tu te lo ricordi Alfredino Rampi?"
"Certo, come no"
Lo chiedevo pochi giorni fa ad un amico regista, poco più giovane di me. Io lo ricordo bene: nel giugno del 1981, mentre si consuma la tragedia di Vermicino, io ho quattro anni e un ampio caschetto biondo, simile a quello che ora ha mia figlia. Ricordo che il televisore Brionvega in bianco e nero (senza telecomando, naturalmente), viene spostato dalla cucina alla camera da letto dei miei genitori su di un tavolino con le rotelle, per seguire l’improvvisata diretta TV della RAI. Io protesto, voglio i cartoni animati.
Ricordo che da quel giorno una nuova parola entra nel mio vocabolario di quattrenne, ma senza che io ne comprenda davvero il significato: “pozzo artesiano”. Del resto, non ne avevo mai visto uno. Avevo visto tanti pozzi (dove sono cresciuto io, poco prima che diventasse Gomorra, le case erano quasi tutte dei palazzi con grandi cortili, intorno i quali si distribuivano le stalle, i bassi, il forno per il pane, la porta che scendeva in cantina, e tutti questi spazi facevano perno al pozzo centrale) ma non riuscivo ad immaginare cosa volesse dire “artesiano”. Genitori, zii, cugini più grandi e soprattutto gli amichetti dell’asilo, a loro volta indottrinati dal proprio parentame: tutti ad agitare davanti ai miei occhi marroni lo spauracchio del pozzo artesiano.
"Guarda dove metti i piedi"
"Non andare nei campi da solo"
"Stai attento ai pozzi artesiani"
"Vuoi fare la fine di Alfredino!?!"
Già in quell’estate del 1981 provo un’embrione deforme di compassione e pietà per Alfredino, anche se non posso avere ancora idea di che cosa sia la morte e soprattutto quella morte. Intorno a me fanno un buon lavoro per farmi capire che Alfredino “era un bambino come te” e generare così una sorta di solidarietà cameratesca ex post. Poverino, penso io, devo stare attento ai pozzi artesiani, e spero di riconoscerlo quando ne vedrò uno.
Ma ora che sono padre mi metto nei panni dei suoi genitori e mi si mozza il respiro. Perdere un figlio è forse il peggior orrore, l’indicibile.
Stamattina, mentre faccio colazione e mia figlia gioca nei pressi del divano, scorro le notizie sul cellulare e mi imbatto in questa:

Ne faccio uno screenshot come promemoria per ricordarmi che ne potrei scrivere, dopo. L’articolo ha circa 1500 condivisioni.
Quando mi siedo al computer per scrivere questo post, il pezzo campeggia in apertura del sito di Repubblica Bari, le condivisioni sono salite a più di settemila e il titolo è nel frattempo cambiato:

Non è difficile immaginare le ragioni per le quali il redattore – magari su forte suggerimento dei suoi superiori – abbia deciso di modificare il titolo. Certo, se avesse fatto maggiore attenzione, si sarebbe ricordato di cambiare anche l’url del post:

https://bari.repubblica.it/cronaca/2020/03/28/news/matera_bimbo_di_3_anni_trovato_morto_nel_fiume_
era_uscito_da_casa_in_un_momento_di_distrazione_dei_genitori-252533575/
Nell’articolo non scompare però quella che suona piuttosto come una formula trita del giornalismo pigro:
Nella mattinata di venerdì il bambino si sarebbe allontanato in un attimo di distrazione dei genitori
“Un attimo di distrazione”.
La pietà, la comprensione e il rispetto verso il dolore indicibile che stanno provando i genitori di Diego impongono, se non un doveroso silenzio, per lo meno un equilibrio delle parole, che sia specchio di un pensiero sì acuto, ma dai tratti umani. La domanda che si sussurra dietro questa vicenda – e che forse spiega le mutevoli decisioni editoriali di Repubblica Bari – è questa: si può essere colpevoli di distrazione?
(continua...)